Mare di papaveri (Amitav Ghosh)

Romanzo corale ambientato nel 1838 in India.👳🧕

Deeti vive in una capanna col marito e la figlia. Il marito lavora in una fabbrica di trasformazione dell’oppio, il principale prodotto di quelle zone, e lui stesso ne è schiavo. Quando muore, lei deve immolarsi nella pira funeraria con lui, ma viene salvata all’ultimo minuti da Kalua, un enorme ex lottatore, e per questo devono scappare, ricercati dalla famiglia di lei.

Paulette è la giovane figlia di un botanico 🌱🌿 francese. Quando il padre muore, si mette in testa di andare fino alle Mauritius da sola come ha fatto una sua bisavola semi-famosa.

Reid è un mulatto figlio di una schiava liberata e del suo ex padrone: grazie alle sue capacità marinaresche e alla sua intelligenza, riesce a risalire la gerarchia della Ibis, la goletta a due alberi che Deeti ha visto in sogno.

Neel è un raja decaduto e finito in prigione: gli hanno tatuato in faccia la parola “truffatore” e deve adattarsi a vivere nella sporcizia, nel vomito, tra le pulci, diventando amico di un cinese in crisi di astinenza da oppio.

Questi ed altri personaggi sembrano slegati l’uno dall’altro, ma si troveranno tutti uniti sulla Ibis⛵, chi in incognito, chi con il suo ruolo definito.

Al di là dell’enorme lavoro di ricerca (davvero enorme, credetemi), la storia è molto evocativa, ogni personaggio ha il suo passato e il suo carattere, e io, che di solito non amo i romanzi corali, sono riuscita ad affezionarmi a Reid e Neel (le scimmie attorno alla fabbrica di oppio che ciondolano semiaddormentate sono uno dei tanti colpi da maestro 🙈🙉🙊).

Tutte le vicende sono intrecciate con l’oppio e il traffico di coolies, con l’Inghilterra che spadroneggia in Oriente e il razzismo che non risparmia quasi nessuno.

Ah, prima che lo leggiate, vi avviso che non è un romanzo a sè… c’è un seguito, è parte di una trilogia.

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Sol levante (Michael Crichton)

Non sapevo che l’omonimo film con Sean Connery fosse una trasposizione di un libro di Crichton: devo vederlo. Qui però vi parlo del libro, una specie di thriller a tema.

Ma eccovi la trama…

La serata di inaugurazione del grattacielo Nakamoto a Los Angeles è in pieno svolgimento: ci sono personalità dello spettacolo e della politica, giornalisti e guardi del corpo ovunque. Ma al piano di sopra, sul tavolo di una sala riunioni, è riverso il cadavere di una bellissima ragazza.

Ad indagare vengono chiamati l’ufficiale di collegamento per le relazioni internazionali detective Smith, e il più attempato ma scaltro detective in pensione Connor.

Le indagini si rivelano subito difficili a causa dello scontro tra due culture, l’americana e la giapponese, che non potrebbero essere più diverse, senza contare il fatto che la Nakamoto ha le mani in pasta in ogni settore dell’economia, dell’editoria e della politica.

Ed è qui che si intreccia il tema che Crichton si è dato tanto da fare per inculcarlo nella testa degli americani: i giapponesi si stanno mangiando gli Stati Uniti. Comprano tutto. E gli americani glielo lasciano fare, anche se vendono ai nipponici segreti industriali che poi gli stranieri usano contro gli americani stessi.

Gli uomini d’affari giapponesi sono descritti come uomini senza scrupoli, seppure questo sia parzialmente giustificato dalla loro cultura.

E se il monito non era tanto chiaro, Crichton ce lo ripropone nella postfazione, spiattellandocelo in faccia chiaro e tondo.

Il problema dei romanzi a tema è che la storia e i personaggi ne risentono sempre.

La storia si trascina: si capisce che gli eventi sono messi uno dietro l’altro solo per proporre esempi di settori in cui i giapponesi stanno mangiando i risi in testa agli americani.

La voce narrante, l’ispettore Smith, è piuttosto stupidotto e si fa guidare passo per passo da Connor, che nel film è impersonato da Sean Connery, un personaggio che tace le proprie intenzioni rivelandocele solo alla fine per creare il colpo di scena.

Un libro che trabocca di compassione per i poveri americani che si fanno prendere in giro dai furbi stranieri.

Qualcuno lo ha letto e ha avuto la stessa impressione?

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Artemisia (Alexandra Lapierre)

Della pittrice Artemisia, prima di leggere questo libro, sapevo che era stata violentata a diciassette anni e che ciononostante aveva trovato la forza di diventare una delle migliori artiste del suo tempo.

La Lapierre però ci racconta la storia molto più in dettaglio, dopo aver letto e studiato una montagna di documentazione in più lingue.

Nella mia ingenuità, pensavo che dopo esser stata violentata, la ragazzina avesse iniziato a odiare Agostino Tassi con tutto il suo cuore e la sua anima, ma la storia è molto più complicata. Era una donna e siamo nel Seicento. A quel tempo, una donna doveva sposarsi. E Agostino Tassi, dopo il fattaccio, le aveva promesso di renderla una donna “onesta”, e per un po’ vissero insieme come marito e moglie, pur non essendo sposati.

Tassi era comunque un uomo interessante. Ed era un amico del padre. Insomma, era tutto ambiguo e complicato.

Eppure Artemisia ha trovato il coraggio di portarlo in tribunale. Ma la sapete una cosa? I giudici, per essere sicuri che lei non stesse mentendo, le hanno rotto i pollici. A lei, non a Tassi.

Questo è un libro che ci fa capire bene come un artista sia solo un essere umano.

Prendiamo Agostino Tassi, che ha violentato la figlia diciassettenne dell’amico. Era sposato, ma ha fatto uccidere la moglie. Poi ha messo incinta la cognata quattordicenne e poi l’ha fatta sposare con un suo apprendista.

La strada degli artisti in cui abitavano Artemisia e la sua famiglia era famigerata e pericolosissima: gli accoltellamenti per quelli che noi oggi dichiareremmo “futili motivi” erano all’ordine del giorno, anche se allora, il riconoscimento della propria arte era essenziale per guadagnarsi da vivere e passava attraverso simboli, spillette, precedenze varie.

Artemisia, a differenza dei fratelli, aveva dimostrato subito al padre di poterlo eguagliare nella pittura. E, diciamolo, cosa le restava da fare, dopo aver perso la dote, che il padre aveva speso per il funerale della moglie trentenne?

Intanto lei affina le sua capacità e diventa un’artista affermata, fino ad arrivare alla corte dei Medici. A 25 anni di sposa, perde tre figli, viene ammessa all’Accademia (una donna!), molla il marito, si trova diversi amanti, fa altre due figlie che cerca di tenere lontano dall’ambiente artistico, si destreggia tra un partito e l’altro, tra un duca e un Papa, tra Napoli, Roma e l’Inghilterra… insomma, ha una vita che possiamo definire “piena”.

Ma tutti i nodi devono tornare al pettine.

Nel suo caso, il nodo è suo padre. Quel padre che, da piccola, la portava sulle spalle, che le ha insegnato a dipingere e che lei, poi, non vede per venticinque anni, finché lui non la chiama in Inghilterra. Perché? Per rivederla? Per aiutarlo a ritrovare la sua vena artistica ormai troppo secca per decorare la cappella della regina?

Un libro pieno di sfumature psicologiche ben ricostruite. L’autrice è riuscita a farmi vivere più di quattrocento anni fa in un ambiente che oggi idealizziamo un po’ troppo.

Spesso pensiamo agli artisti come a delle persone che vivono in un mondo diverso dal nostro, che segue regole speciali, e siamo portati a giustificarli più del dovuto: “Sono artisti”, diciamo.

No.

Sono esseri umani con delle capacità che la società apprezza e paga. Ci aiutano a capire meglio altri esseri umani, o un certo periodo storico, ma loro, con le loro braccia e le loro gambe, sono felici? E quando sono felici? L’arte gli basta? La sensibilità che usano per creare, li rende persone migliori?

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La ballata delle anime inutili (Tommaso Avati)

Gargano, 1938.

Sofia ha tredici anni. La chiamano Vermitura, che in dialetto significa chiocciolina, perché è lenta, soprattutto in matematica, non capisce i numeri (oggi si direbbe che soffre di discalculia). Ha però un rapporto tutto suo con le parole, le vede davanti a sé, riconosce il loro valore e la loro potenza, tanto da non pronunciarne alcune perché le rispetta troppo.

Ma siamo in pieno periodo fascista e questa sensibilità non viene apprezzata, anzi.

Sofia vive in una masseria col padre e quattro fratelli. Il padre si è vantato di fare solo figli maschi, finché non è nata lei.

Quando si sposa il figlio più giovane, Angelino, si porta in casa la moglie, Caterina, e assume il diritto di dormire con la donna nella camera dove si fanno i figli. Solo che i figli non arrivano: e questo è un grave stigma per la famiglia, tanto da portare a conseguenze estreme.

La storia di Sofia si intreccia con quella – vera – di una comunità di San Nicandro, un paese poco lontano, dove un reduce della prima guerra Mondiale, Donato Manduzio, dopo aver imparato a leggere sulla Bibbia, ha convertito i compaesani all’ebraismo.

Nel 1938. Quando vengono emanata le leggi contro gli ebrei…

Di questo libro si apprezza lo stile, ricco di metafore e similitudini; il fascino ambiguo che hanno le superstizioni sugli esseri umani; ma anche la personalità di Sofia, che vive sottomessa alla cultura patriarcale, fino al momento in cui avrà la possibilità di affrancarsene, anche se lo farà a modo suo.

Un modo che io non capisco, ma io mi trovo nel 2024, nella Pianura Padana, e ho difficoltà a capire tante cose (forse ho una leggera forma di Asperger, pensa te, a cinquant’anni dovevo scoprirlo…).

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La tirannia del merito (Michael J. Sandel)

Sandel è un filosofo e un professore universitario. La sua è una riflessione sugli effetti perversi dell’importanza spropositata che ha assunto il merito nella società contemporanea.

Attenzione: non ci sta dicendo che non è importante. Non ci sta dicendo di affidarci a un dentista o a un idraulico meno capaci. Ci sta dicendo che la concorrenza spietata che oggigiorno fa perno sul merito individuale non fa bene alla società.

Il primo effetto negativo è che chi è all’apice, chi ha una laurea e un buon lavoro, tende a pensare di essere arrivato nella sua posizione grazie ai suoi meriti e a dimenticare altri fattori, come la fortuna e l’aiuto ricevuto. Con una mentalità del genere, è ovvio che poi non riesca a immedesimarsi in chi non ha raggiunto posizioni simili alle sue, è ovvio che finisca col darne la colpa a chi è rimasto indietro, giudicandolo pigro. Di conseguenza, gli risulta difficile ragionare in termini di solidarietà.

D’altra parte, chi è rimasto indietro, si sente “in colpa”: è come se gli facessero continuamente notare che se non ha una Bugatti e una villa con piscina è per via della sua incapacità. Questo genera risentimento. E questo risentimento può sfociare in atteggiamenti di rivolta, anche politica: i sostenitori di Trump e della Brexit appartenevano in grandissima parte a questa categoria di elettori insoddisfatti che si sentivano sbeffeggiati.

Ma il merito è davvero la panacea di tutti i mali? Se le persone hanno la sfortuna di nascere in un contesto sociale degradato o di esser dotati di capacità inferiori alla media, è davvero colpa loro?

La retorica dell’ascesa grazie al merito è un aspetto che accomuna sia la destra che la sinistra, sia i liberal che i conservatori: nessuno la mette in dubbio. Tutti considerano lo studio come lo strumento essenziale per l’ascesa sociale, eppure…

Eppure Sandel ci dimostra che se i salari non aumentano, NON è il risultato di un fallimento educativo. Le cause sono altrove, e questo l’università non lo ha recepito.

Al giorno d’oggi, la maggior parte dei rappresentanti politici ha una laurea: così ci ritroviamo una classe che legifera su una società in cui i laureati sono solo una minoranza. Come si può pretendere che ci sia comprensione? E cosa fanno quelli che non si sentono capiti e rappresentati?

Ricorrono ai voti di protesta (vedi Trump, Brexit, e tutti quelli che promettono di far cambiare le cose in tempi stretti).

La meritocrazia estrema è diventata una nuova forma di disuguaglianza. La la soluzione non è diventare più meritori: è combattere la disuguaglianza.

Lo sforzo, il merito, non bastano: in una società che idolatra il merito serve – ad esempio – che venga apprezzato (e pagato) il talento che ti sei ritrovato. E questa è una forma di fortuna. Se sei bravo a giocare a freccette, sei meno fortunato di uno che è bravo a giocare a basket, perchè la società non ti paga se centri il cerchietto rosso. Dipende solo dal tuo sforzo?

E poi, nel mondo moderno il lavoro in sè ha perso dignità se non ti permette di guadagnare bene.

La tirannia del merito negli Stati Uniti inizia già alle superiori quando i genitori facoltosi investono decine e centinaia di migliaia di dollari per corsi e couch che permettano ai rampolli di entrare nelle università più prestigiose. Si arriva al punto di truffare il sistema, pur di farli entrare spendendo cifre pazzesche. Lo scopo non è di dar loro una preparazione per guadagnare di più (se investivano quei soldi in un fondo, ottenevano comunque lo scopo).

L’obiettivo di questi genitori è di ammantare i propri figli di un alone di merito che giustificherà tutto quello che faranno.

E’ un libro complesso e ben argomentato.

Avevo iniziato a leggerlo con qualche perplessità, perché a me piace la gente che si dà da fare, ma Sandel ti fa ragionare e ti fa mettere in dubbio quella coorte di motivatori e life-coach che adesso inondano il web.

Da leggere con calma.

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L’olocausto e i giovani

Ieri sera stavamo guardando “Il pianista”, il film diretto da Polansky con Adrien Brody.

Arrivati alla prima scena in cui i nazisti scelgono degli ebrei a caso e li fucilano in mezzo alla strada, mio figlio è saltato su: “Ma dai, adesso stanno esagerando, non è possibile che facessero così!”

Boato di indignazione da parte mia e di mio marito!!

“Ma come puoi dire una cosa del genere? Non azzardarti a diventare un negazionista! Non le studiate queste cose a scuola??”

E lui, un po’ sorpreso dalla nostra reazione: “Mamma, parliamo della Shoah ogni anno prima, durante e dopo il giorno della memoria, ma non ci hanno mai detto che sparavano in testa alle persone così, per strada, a caso. Se fosse successo, i prof ce l’avrebbero detto!”

Quindici anni, liceo.

Colpa nostra, che non glielo abbiamo mai detto, e degli insegnanti, che lo hanno sempre dato per scontato.

Ieri sera, davanti a me, ho avuto la prova che dell’olocausto se ne deve parlare ancora. Forse in modo diverso.

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Dove sei? (Marc Levy)

Ho preso un libro di Marc Levy perché me lo aveva consigliato Robin MacPherson nella sua lista di libri per lettura estensiva in francese. Diceva che mentre leggeva Levy si ritrovava a ridere e a piangere, a seconda degli argomenti.

Penso però di aver preso in mano, tra tutte le opere di questo prolifico autore francese, il libro meno letto e recensito.

La storia riguarda Susan e Philip. Sono innamorati fin da bambini, ma lei è inquieta: a vent’anni va in Honduras e si dedica anima e corpo alle popolazioni costantemente al limite della sopravvivenza tra inondazioni e guerre.

Susan e Philip si incontrano una volta ogni uno o due anni all’aeroporto, ad un tavolo che ormai è diventato loro, davanti a un gelato spruzzato di noccioline e cioccolata. Hanno poche ore per raccontarsi quello che non si sono detti per lettera, ma spesso finiscono per litigare, perché nessuno dei due capisce la scelta dell’altro.

Philip, pur pensando costantemente a Susan, non riesce ad abbandonare New York e il suo lavoro di pubblicitario, e Susan non riesce ad abbandonare i suoi poveri, nonostante i rischi a cui anche lei è sottoposta.

Per metà libro la storia va avanti così…

Poi succede qualcosa, ma a questo punto Philip è già sposato con Mary e ha un figlio di cinque anni.

Devo ammettere che questo libro non mi ha dato grandi emozioni, l’ho trovato piatto e monotono, perfino nella parte in cui Susan rischia di essere ingoiata da un mare di fango. Susan, poi, non mi è simpatica: che senso ha tenere Philip al laccio per tutto quel tempo sapendo che non vivrete mai insieme?

Ora capisco perché non si trovano tante recensioni in giro…

Le storie a distanza non funzionano e Levy ha voluto scrivere un romanzo proprio su questo mancato funzionamento, nonostante l’amore di un passato comune. Le lettere che si scambiano hanno velleità di essere romantiche, ma non riescono nello scopo.

Insomma, ho finito di leggerlo solo perché dovevo far esercizio col tedesco.

Qualcuno lo conosce? Vi è piaciuto?

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Tommaso Avati ha presentato il suo ultimo libro a S. Stino di Livenza (VE)

Ho davvero dovuto vincere la mia pigrizia ieri sera, per andare in Municipio ad assistere alla presentazione di “La ballata delle anime inutili”, ma non potevo perdermela. Il libro, edito da Neri Pozza, è uscito l’anno scorso e, a giudicare dalle classifiche di vendita, piace.👏

Il romanzo è ambientato nel Gargano nel 1938. La protagonista è la tredicenne Sofia, unica figlia di un padre padrone: la chiamano Vermitura, che in dialetto significa “chiocciolina”, perché è lenta, non riesce a farsi entrare i numeri in testa. Con le parole, però, è un’altra storia…

La vicenda di Sofia si intreccia con gli avvenimenti realmente accaduti a un personaggio storico, Donato Manduzio, un contadino che, nel bel mezzo dell’ondata antisemitica e delle leggi razziali, riesce a convertire il suo paese, San Nicandro, all’ebraismo… con le conseguenze che possono derivarne.

Quando Tommaso Avati è entrato, la mia primissima impressione è stata di trovarmi davanti a una persona cupa, controllata, pensosa. La barba toglie sempre un po’ di allegria alle facce e anche questa volta mi ha indotto in errore.

Nel corso della serata si è rivelato come un uomo aperto allo scambio di idee, forse un po’ timido, ma con una dose di coraggio che gli ha permesso di parlare anche di problemi personali che gli hanno reso la vita difficile per molto tempo. Insomma, è piaciuto anche a mio marito, che ho trascinato alla presentazione minacciandolo di non cucinargli più le mie famose ricette.

O forse lo ho minacciato di cucinargliele più spesso? Boh, non ricordo.😈

Interessante l’evoluzione della carriera di Avati. Inizia come sceneggiatore accanto al padre Pupi, ma ben presto si accorge che il mondo del cinema non gli offre la libertà di cui sente il bisogno: le sceneggiature sono fortemente influenzate dal ragionamento economico, e poi quasi mai si scrivono da soli, bisogna tener conto dei desideri del produttore o mediare le proprie idee con quelle degli altri sceneggiatori.

Quando ha iniziato a scrivere romanzi, invece, si è subito accorto della libertà che offrivano.

“E’ questo che voglio fare!” ha detto.

Il romanzo affronta diversi temi, lui ce ne ha presentati un paio.

La questione femminile: la scelta è legata in qualche modo al libro precedente, che parlava di tre donne con problemi di sordità. Una volta posata la penna, si è accorto che non aveva sviscerato abbastanza il tema delle donne nel Novecento e così ha iniziato a prendere forma il personaggio di Sofia.

Ma è ancora più curioso il modo in cui Sofia si è sviluppata sulla carta. Questa ragazzina ha delle caratteristiche strane. Innanzitutto, attribuisce una grandissima importanza alle parole: per lei una parola non ha mai un solo significato, il suo contenuto può cambiare, e alcune parole sono così enormi da non poterle pronunciare mai. Inoltre, quando entra in casa, bacia la porta.

Ebbene, solo dopo aver sviluppato questi piccoli tic, l’autore ha scoperto che entrambi i comportamenti sono tipici della cultura ebraica. Ed è qui che è scattato il collegamento con una storia che aveva sentito decenni prima: la storia di Donato Manduzio (la questione ebraica, il secondo tema di cui ci ha parlato).

I giri che fa la creatività sono proprio affascinanti…

Alle presentazioni dei libri si impara sempre qualcosa di nuovo.

Per esempio…

Avati ha fatto naturalmente le sue ricerche per affrontare gli argomenti del romanzo e ha scoperto che quando in Italia esisteva il vero patriarcato, nel secolo scorso, di femminicidi quasi non ce n’erano, i numeri non erano neanche paragonabili a quelli di oggi. Non vuole essere una difesa del patriarcato, ma fa pensare: quando la donna rompe un ordine precostituito, per quanto pesante e opprimente, il numero dei femminicidi aumenta.

Insomma, sono contenta di aver sconfitto la mia pigrizia serale essere uscita di casa.

L’autore non ha avuto timore di ammettere certi dubbi e idiosincrasie personali, e di parlare dei suoi problemi di sordità con la sofferenza che ne è derivata.

O forse ce l’ha avuta, un po’ di paura.

Ma solo se c’è paura ci può essere coraggio.

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Equalizer 3: gli stereotipi sugli italiani

Guardo sempre volentieri un film d’azione, anche se poi ci sono certi aspetti che fanno pensare.🤔

Innanzitutto, nel film, un medico italiano parla di mafia, ‘ndrangheta e camorra come se fossero sinonimi: non lo sono. Ma adesso gli americani lo penseranno (vabbè, poco male, a volte neanche noi italiani sappiamo distinguerle).

Poi ci sono alcune scene che sono davvero inverosimili.🤣

Come il carabiniere che viene picchiato a casa dai mafiosi perché ha osato informarsi su un numero di targa di alcuni incendiari. O, ancora peggio, la scena in cui il capo-mafioso picchia lo stesso carabiniere nello spiazzo di un condominio, minaccia un’esecuzione e chiama tutti gli abitanti per guardare cosa sta facendo: adesso gli americani penseranno che siamo in balia di questa gente, che non chiamiamo le forze dell’ordine, o, forse, che tutte le nostre forze dell’ordine sono corrotte.

L’idea degli “italiani brava gente” è dura a morire. Gente un po’ stupidotta, ma tanto gentile, che ti regala il pesce perché sei amico di un amico (ma dove???), o che ti corre dietro in strada per venderti un cappello.

Ah, poi, sentite questa: la bellina di turno invita Denzel Washington a mangiare il vero cibo del paesello. Lo porta a una sagra e le danno un piatto di… Kebab!!! Ma santo cielo, il Kebab è siciliano?? Ma chi gliel’ha scritta la sceneggiatura a questi? (Richard Wenk)

Senza parlare del fatto che nessuno paga i due piatti!

E ovviamente non poteva mancare la scena finale dove tutti si mettono a ballare dopo aver vinto una partita di pallone (o un torneo, non so).

Per favore, abbiate pietà di noi italiani…

Infine, una richiesta di aiuto ai doppiatori: per favore, doppiate gli attori italiani, altrimenti non si capisce niente 😓di quello che dicono. Non solo perché parlano dialetti regionali (come se tutti gli italiani capissero il siciliano o il napoletano), ma anche perché si mangiano letteralmente le parole. Quando nel film parlavano gli attori italiani, ho capito la metà di quello che dicevano. Anche io parlo veneto con amici e parenti, ma se devo farmi capire da gente che non conosco, parlo italiano!


STEREOTYPES ABOUT ITALIANS

I always like to watch an action movie, although sometimes there are certain aspects that make one think.🤔

First, in the movie, an Italian doctor talks about mafia, ‘ndrangheta and camorra as if they were synonyms: they are not. But now Americans will think so (whatever, no big deal, sometimes even we Italians can’t tell them apart).

Then there are some scenes that are really far-fetched. 😓Like the carabiniere who is beaten at home by the mobsters because he dared to inquire about a license plate number of some arsonists. Or, even worse, the scene in which the Mafia boss beats up the same carabiniere in the forecourt of an apartment building, threatens an execution, and calls all the residents to watch what he is doing: now Americans will think we are at the mercy of these people (we aren’t), that we don’t call the police (we do), or perhaps that all our law enforcement is corrupt (they aren’t).

Ah, then, get this: the cute girl invites Denzel Washington to eat real village food. She takes him to some kind of festival and they give her a plate of…. Kebab!!! But my goodness, Kebab is Sicilian?😤 But who wrote the script for these guys? (Richard Wenk)

And of course, the final scene where everyone starts dancing after winning a ball game (or a tournament, I don’t know) could not be missed.

Please have mercy on us Italians….

Finally, a plea for help to the voice actors: please dub the Italian actors, otherwise we (italians) cannot understand anything they are saying. Not only because they speak regional dialects (as if all Italians understand Sicilian or Neapolitan), but also because they literally eat their words. When the Italian actors spoke, I understood half of what they were saying. I also speak Veneto with friends and relatives, but if I have to make myself understood by people I don’t know, I speak Italian!

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La stanza dei libri (Rosemarie Marschner)

E’ una mia impressione o gli autori austriaci sono poco presenti sugli scaffali delle librerie italiane?

Nel caso di questo libro, è un peccato che non sia stato ancora tradotto, e invito qualche casa editrice italiana a occuparsene, perché potrebbe vendere bene.

Bella la storia: nel primo dopoguerra, Maria è figlia di una ragazza madre della campagna austriaca. Suo padre era un ricco nobile che non ha avuto il coraggio di seguire il suo cuore e che ha dovuto obbedire ai dettami della sua famiglia, abbandonando la donna di cui era innamorato.

A sedici anni, Marie viene mandata a servizio presso una ricca famiglia di Linz. Qui si farà notare per la sua buona volontà e, soprattutto, verrà “presa in prestito” dal vecchio signore, che tutti sopportano a malapena, che non ci vede più bene e che ha bisogno di qualcuno che gli legga i giornali.

E’ così che Marie viene a conoscenza dei fatti del mondo: il nazismo si sta facendo strada. Il vecchio notaio se ne è accorto e attira la sua attenzione su piccoli dettagli e accadimenti che restano ignorati dalla maggioranza.

Marie si innamora, senza speranza, di un amico della figlia della padrona: sa però che la differenza di classe non perdona e non si fa illusioni.

Dopo la morte della madre, quando si ritrova sola e senza un lavoro, accetta la proposta di matrimonio del figlio del panettiere della città: crede di amarlo, ma quello che l’ha spinta a questa decisione è pura solitudine, e se ne accorgerà poco a poco, quando la suocera inizierà a metterla alle strette per la sua nascita “peccaminosa”.

Gli eventi precipitano con l’annessione dell’Austria alla Germania e l’arrivo dei tedeschi, che incominciano subito a far da padroni e a espropriare case e immobili per costruire industrie.

Non vi racconto come va a finire, ma è un bel romanzo.

I personaggi sono ben delineati: Marie è una contadina, ma non è stupida, e non è neanche una vittima lamentosa. Anche i personaggi secondari sono ben descritti: la signora che si mette la crema al radio sul viso (non finirà bene), il vecchio notaio che sogna una ex servetta formosa, la suocera che è animata da desideri di rivalsa, il marito che è infatuato della mogliettina ma che non sa ribellarsi alla madre, lo zio che vuole bene a Marie ma che è intriso di cultura contadina, ecc…

Tanti i temi toccati, faccio solo alcuni esempi: il tema della nascita vergognosa e del senso di estraneità, le distinzioni di classe, il nazismo e il dissenso, la libertà e le regole sociali.

Se qualche editore mi sta leggendo: dovete tradurlo. Non escludo una versione cinematografica.

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